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EYE MOVEMENT DESENSITIZATION AND REPROCESSING

EMDR

Maria Zaccagnino, Martina Cussino, Isabel Fernandez

 

L’EMDR, Eye Movement Desensitization and Reprocessing (desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un metodo psicoterapeutico evidence-based che permette l’elaborazione dei ricordi traumatici immagazzinati in modo disfunzionale all’interno del sistema di memoria e che costituiscono la base della psicopatologia. 

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Si basa su una stimolazione cerebrale bilaterale contemporanea alla rievocazione del trauma da parte della persona: lo psicoterapeuta chiede al paziente di muovere gli occhi a destra e a sinistra seguendo le sue dita.

L’EMDR viene utilizzato per il trattamento di diverse psicopatologie e problemi legati sia ad eventi traumatici, che a esperienze più comuni ma emotivamente stressanti. È efficace nel trattamento di numerose psicopatologie inclusi la depressione, l’ansia, le fobie, il lutto acuto, i sintomi somatici e le dipendenze.

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Dopo una o più sedute di EMDR, i ricordi disturbanti legati all’evento traumatico hanno una desensibilizzazione, perdono la loro carica emotiva negativa.

Il cambiamento è molto rapido, indipendentemente dagli anni che sono passati dall’evento:

  • L’immagine cambia nei contenuti e nel modo in cui si presenta,

  • i pensieri intrusivi in genere si attutiscono o spariscono, diventando più adattivi dal punto di vista terapeutico  

  • le emozioni e sensazioni fisiche si riducono di intensità.

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L’elaborazione dell’esperienza traumatica che avviene con l’EMDR permette al paziente, attraverso la desensibilizzazione e la ristrutturazione cognitiva che avviene, di cambiare prospettiva, cambiando le valutazioni cognitive su di sé, incorporando emozioni adeguate alla situazione oltre ad eliminare le reazioni fisiche.

Questo permette, in ultima istanza, di adottare comportamenti più funzionali.

 

Dal punto di vista clinico e diagnostico, dopo un trattamento con EMDR il paziente non presenta più la sintomatologia tipica del disturbo post-traumatico da stress, quindi non si riscontrano più

  • gli aspetti di intrusività dei pensieri e ricordi,

  • i comportamenti di evitamento e

  • l’iperarousal neurovegetativo nei confronti di stimoli legati all’evento, percepiti come pericolo.

Un altro cambiamento significativo è dato dal fatto che il paziente discrimina meglio i pericoli reali da quelli immaginari condizionati dall’ansia. 

Si sente che veramente il ricordo dell’esperienza traumatica fa parte del passato e quindi viene vissuta in modo distaccato.

I pazienti in genere riferiscono che, ripensando all’evento, lo vedono come un “ricordo lontano”, non più disturbante o pregnante dal punto di vista emotivo.

Dopo l’EMDR il paziente ricorda l’evento ma il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più adattiva. L’esperienza è usata in modo costruttivo dall’individuo ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo. Cioè il paziente realizza le connessioni di associazioni appropriate, quello che è utile è appreso ed immagazzinato con l’emozione corrispondente ed è disponibile per l’uso futuro.

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L’EMDR è stato scoperto in modo casuale nel 1987 da Francine Shapiro durante una passeggiata in un bosco in cui notò l’effetto specifico che i movimenti oculari bilaterali avevano su alcuni suoi pensieri disturbanti.

Shapiro, infatti, si accorse che, concentrandosi sui ricordi che in quel momento la disturbavano mentre muoveva gli occhi, la componente emotiva ad essi collegata diminuiva rapidamente e spontaneamente (Shapiro, 1995).

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Dobbiamo chiarire innanzitutto cosa si intenda per trauma psicologico e quale sia l’impatto dei ricordi traumatici sulla vita di un individuo. Non è ancora chiaro, infatti, quali siano le caratteristiche che rendono traumatico un particolare evento di vita o quali siano i meccanismi che conducono alcuni individui a manifestare i chiari sintomi di una reazione post traumatica (come, ad esempio, condotte di evitamento o flashback) a seguito dell’esposizione ad un determinato evento, mentre altri sembrino rimanerne completamente immuni. È importante ricordare, infatti, che non tutti gli eventi di vita difficili possono essere considerati di per sé traumatici, ciò che conta e che contribuisce a definirli tali è l’impatto esercitato sull’individuo che li subisce. Ad oggi il modello teorico alla base dell’EMDR, che guida la pratica clinica è quello dell’Adaptive Information Processing (AIP), ovvero il Modello di Elaborazione Adattiva delle Informazioni (Shapiro, 1995), secondo il quale in tutti gli esseri umani esiste una funzione neurobiologica innata che tende all’elaborazione dell’informazione.

Grazie al sistema di elaborazione delle informazioni, infatti, ogni nuova esperienza viene in qualche modo digerita, ovvero ciò che è ritenuto utile viene mantenuto, insieme alle emozioni ad esso associate e servirà a guidare l’individuo nelle esperienze future, mentre ciò che è inutile viene rimosso (Shapiro, 2011).

Questo avviene perché le percezioni sensoriali provenienti dal mondo esterno vengono integrate e connesse ad informazioni simili già immagazzinate nelle reti mnestiche, permettendo così di dare senso e significato alle esperienze successive (Solomon & Shapiro, 2008).  

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Il termine trauma proprio come indica l’etimologia della parola stessa (trauma deriva dal greco e significa “danno”, “ferita”, “lacerazione”) fa riferimento alla sensazione di frattura che un individuo percepisce all’interno della sua quotidianità e, più in generale, nella vita come la conosceva fino a quel momento. A seguito di un evento traumatico, infatti, l’individuo non sarà più lo stesso, e sperimenterà un divario tra ciò che era “prima” dell’evento traumatico e tutto ciò che si verifica “dopo”.  

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Secondo il DSM 5 (American Psychiatric Association, 2013) il trauma psicologico può essere definito come la conseguenza dell’esposizione ad un evento che minaccia la vita o l’incolumità propria o di altri e che, superando la capacità dell’individuo di padroneggiarlo, induce emozioni di paura, collera e dolore accompagnate da un sentimento di impotenza.

La caratteristica fondamentale che definisce un trauma psicologico rispetto ad un evento stressante, pertanto, è la presenza di emozioni soverchianti che, nell’essere umano, conducono a tale sentimento di impotenza. È evidente come, nell’ultima edizione del manuale diagnostico, sia stato posto l’accento sulla percezione interiore di ciò che può essere definito evento traumatico.  

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Il DSM fa riferimento ad una tipologia di traumi che possono essere definiti traumi con la “T maiuscola”.

Tale categoria include eventi come, ad esempio, aggressioni, incidenti, catastrofi naturali, lutti etc, ovvero eventi che possono avere delle ripercussioni molto importanti su chi li subisce, arrivando a compromettere la qualità della loro vita. L’osservazione e la pratica clinica, tuttavia, mettono in evidenza come, anche eventi definiti traumi con la “t minuscola”, di cui ciascun individuo può aver fatto esperienza, come ad esempio essere stati oggetto di critiche o momenti di svalutazione o umiliazione, possono condurre l’individuo a sperimentare le medesime reazioni posttraumatiche di un trauma con la T maiuscola.  

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Tali esperienze intaccano la fiducia in sé stessi e il proprio senso di autoefficacia che può portare l’individuo a sviluppare una visione di sé e del mondo ristretta e limitata.

Rientrano in tale categoria anche quelli che vengono definiti “traumi relazionali” (Schore, 2003, 2009) ovvero tutte quelle esperienze disfunzionali vissute all’interno delle relazioni interpersonali che possono generare forti emozioni di impotenza o vergogna e possono essere associate allo sviluppo di credenze negative su di sé come ad esempio “non sono amabile”, “non valgo”, “non sono importante”. In questi casi, pertanto, non si assisterà esclusivamente alla descrizione dei sentimenti di vergogna e impotenza sperimentati durante l’evento, ma il soggetto avrà la sensazione di risperimentare quelle emozioni nel presente.  

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Proviamo a pensare ad un evento disturbante che può verificarsi nella vita di tutti i giorni, come ad esempio venire criticati improvvisamente dal proprio professore. Inizialmente la reazione a cui un individuo potrebbe andare incontro può essere agitazione, paura, vergogna o rabbia; si potrebbe osservare una manifestazione a livello fisiologico come, ad esempio, un aumento del battito cardiaco, un innalzamento della pressione sanguigna, potrebbero anche farsi largo nella mente dell’individuo pensieri irrazionali quali un’eccessiva autocritica, o l’impulso di fuggire da quella situazione vissuta come intollerabile.

Nei giorni successivi, l’individuo potrebbe mettere in atto delle strategie per fronteggiare il disagio che continua a sperimentare a seguito dell’evento traumatico: gli potrebbe capitare di sognare l’evento, potrebbe confrontarsi con qualcuno e parlarne o riflettere con calma sulla dinamica dell’accaduto. Tutte queste strategie sono utili per risolvere l’impatto disturbante dell’evento e gli consentiranno di adattarsi e imparare dall’esperienza.

L’attivazione fisiologica diminuisce fino a scomparire del tutto e l’individuo ritorna in uno stato di equilibrio, ripristinando una prospettiva cognitiva adattiva. Il soggetto in questione, infatti, invece di pensare “ho fatto qualcosa di sbagliato” potrebbe modificare tale cognizione e arrivare a pensare “il mio professore sta attraversando un momento difficile e fa così con tutti!”, mettendo quindi in evidenza una rappresentazione di quanto accaduto più aderente alla realtà e non focalizzata sulla propria colpevolezza o autodifettosità. Inoltre, attraverso l’apprendimento, l’individuo sarà in grado di formare nella sua mente un modello che gli consentirà di riconoscere situazioni simili nel futuro e poterle affrontare in modo più adattivo. Tutto questo, tuttavia, non avviene in modo lineare con tutti gli eventi di vita vissuti.

Quando il soggetto si trova a vivere un’esperienza di vita che supera la sua capacità di elaborazione, tale processo si blocca e il soggetto sperimenterà le spiacevoli reazioni appena descritte. Le informazioni ”congelate” e racchiuse nelle reti neurali, non potendo essere elaborate, continuano a provocare disagio nel soggetto, fino a portare all’insorgenza di patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici. Le cicatrici degli avvenimenti più dolorosi, infatti, non scompaiono facilmente dal cervello: molte persone continuano dopo decenni a soffrire di sintomi che ne condizionano il benessere e impediscono loro di riprendere una nuova vita.

 

Centrale, infatti, è il concetto di auto-guarigione, analogo a quello che accade con le ferite fisiche.

Per spiegare meglio tale concetto si può utilizzare una metafora di tipo medico; nel momento in cui il corpo va incontro ad una malattia fisica o una ferita, esso necessita dell’intervento del medico che può agire attivamente su tutto ciò che ostacola la guarigione (ad esempio rimuovere un tumore o ricucire una ferita). Il medico, pertanto, crea le condizioni favorevoli alla guarigione, che, una volta create, può proseguire il suo corso in modo del tutto naturale. Nessun medico, infatti, ha il potere di guarire una ferita, è esclusivamente il corpo stesso che può farlo. Questa capacità è codificata nel nostro DNA ed espressa attraverso i sistemi innati di riparazione che il nostro corpo possiede. Lo stesso avviene quando si parla di ferite psicologiche: quando tali ferite sono provocate da eventi traumatici non adeguatamente elaborati, il clinico non può intervenire in modo diretto e dirigere i dettagli del processo di guarigione. 

 

Dato il riconoscimento a livello mondiale dell’efficacia di questo metodo terapeutico per il trattamento del trauma, ad oggi più di 120.000 clinici in tutto il mondo usano questa terapia. Milioni di persone sono state trattate con successo negli ultimi anni.

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